[Masci] circa la sentenza dell'Aquila

giovanni.caluri giovanni.caluri a alice.it
Mer 24 Ott 2012 17:59:21 CEST


Anche se questa mail list dorme della grossa,
questo argomento creda sia di quelli da
risvegliare anche i morti.
per non essere sempre io a parlare, faccio
parlare l'editorialista di Avvenire di oggi
23 ottobre 2012
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LA SENTENZA DELL’AQUILA E IL RISCHIO DI CRIMINALIZZAZIONE INDISCRIMINATA

No allo Stato di giustizia

MARCO OLIVETTI

Non vi sono dubbi che una valutazione compiuta su una sentenza possa essere
espressa solo dopo averne letta la motivazione e sarà forse vero che ogni
sentenza deve essere rispettata. Ma le prospettive aperte dalla decisione con
cui alcuni componenti della Commissione grandi rischi sono stati condannati per
omicidio colposo per non aver adeguatamente informato la popolazione dell’Aquila
dell’imminente terremoto di due anni fa sono talmente gravi da imporre alcune
osservazioni *qui e ora*. È in gioco, infatti, lo Stato di diritto nel nostro
Paese, e il 'posto' della magistratura nell’ordinamento costituzionale. Dalla
decisione (dal suo semplice dispositivo) emergono infatti alcuni fattori per
nulla isolati nella vita della giurisdizione in Italia. Il primo riguarda la
dilatazione senza limiti della sfera della giustizia penale, che assorbe
qualsiasi altro tipo di controllo. Se anche si ammettesse che i membri della
Commissione grandi rischi siano responsabili di qualche forma di negligenza, la
giustizia penale dovrebbe comunque essere l’extrema ratio , e una cautela
particolare si dovrebbe osservare prima di ricondurre un comportamento umano ad
una ipotesi di reato così grave come l’omicidio colposo. Non vi è certo bisogno
di essere adepti delle ideologie del «diritto penale minimo» per diffidare della
criminalizzazione (in forma così grave) di ogni comportamento. Il secondo
rilievo concerne la nozione stessa di responsabilità, la quale, anche in sede
civile, ha ormai un’estensione proteiforme: in questo contesto nessuno è certo
che un qualsiasi suo comportamento non produca danni a terzi, specie a fronte di
professioni (si pensi a quella medica) intrinsecamente connesse a possibili
effetti dannosi di azioni od omissioni umane.

Della portata imprevedibile di queste concezioni della responsabilità sono ben
consapevoli, del resto, gli stessi magistrati, i quali lottano all’ultimo sangue
– attraverso le loro associazioni – per sfuggire, come categoria, agli effetti
del mostro che hanno contribuito a creare (si veda la polemica sulla
responsabilità civile dei giudici, che ha una storia di ormai un quarto di
secolo, incluso un referendum abrogativo, i cui effetti sono stati prontamente
disattesi). Un terzo spunto di riflessione viene da una concezione della
giustizia penale che mette al centro le vittime, invece della funzione statale
di repressione oggettiva

dei reati. Si tratta di una tendenza molto forte a livello internazionale, che
dà risposta a domande di sicuro pregio (evitare, anzitutto, che il processo
penale si converta in una ulteriore umiliazione per chi ha già sofferto). Ma
questa tendenza rischia di condurre all’abbandono di uno dei postulati
fondamentali del processo penale, vale a dire la sottrazione ai privati del
diritto di farsi giustizia da sé, avvicinando pericolosamente il processo penale
a quello civile, con il pm e il giudice che, anziché reprimere le violazioni
della legge penale, si sentono obbligati a 'dare giustizia' alle vittime: una
giustizia cui non mancano, talora, elementi di vendetta, più o meno primitiva.
Questa miscela diventa esplosiva quando il giudice e il pubblico ministero
cercano – consapevolmente o meno – una sponda nell’opinione pubblica, a fronte
di 'casi difficili'. È forse avvenuto nel caso dell’Aquila, ma anche in altri,
pure essi assai problematici, come quello della Thyssen-Krupp di Torino, nel
quale si è assistito a un altro scivolamento (ben diverso da quello di oggi),
dall’omicidio colposo a quello doloso (sia pure con il cosiddetto dolo
eventuale). Il quadro che ne risulta è assai inquietante: quello dello 'Stato di
giustizia' (menzionato, fra gli ordinamenti contemporanei, solo dall’articolo 2
della Costituzione del Venezuela di Chavez) che sostituisce lo Stato di diritto,
e nel quale giudice e pm (da noi non adeguatamente separati, come è noto, con
tutti i deficit di garanzia che ne conseguono) utilizzano il processo come arena
in cui applicare non i tradizionali meccanismi dello Stato di diritto (con al
centro i valori di legalità, prevedibilità, stretta causalità, responsabilità
personale, ecc.), ma le loro concezioni personali della giustizia, in raccordo
con le aspettative di un determinato ambiente sociale. Ne risulta solo una
apparenza di giustizia, che appaga forse qualche anima bella, ma che distrugge i
fondamenti dell’ordine civile di una società libera e si avvicina
pericolosamente a una caccia alle streghe. Alla radice di questa situazione sta,
del resto, una sopravvalutazione del ruolo del giudice, che viene chiamato a
dare risposta a ogni genere di bisogno umano, per quanto irrazionale (anche se
magari comprensibile), piuttosto che ad applicare il diritto di uno Stato
libero.

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